Notizie dal gruppo di lettura GDL (80°)

La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini

16 aprile 2013

Si è tenuto in biblioteca l’80° incontro del gruppo di lettura, 20 i lettori presenti che hanno confrontato pareri e impressioni sul libro  La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini pubblicato nel 1972.
I lettori sono stati tutti concordi nel giudicare ottima la scrittura, limpida, lineare. Uno stile perfetto. Ricche le descrizioni e mille i particolari trattati con l’ironia che ha sempre contraddistinto gli autori. Romanzo giallo? No, piuttosto una satira sulla società torinese, ma anche italiana,  degli anni 70’.La-donna-della-domenica copertina
Un romanzo di costume che descrive la ricca, esclusiva società, una casta snob in cui difficilmente si può essere accolti se non per diritto di nascita. Una narrazione ricchissima, per alcuni addirittura ridondante, di materiale prezioso.
Senza dubbio la scrittura a quattro mani dei due autori ha contribuito a questo risultato opulento.
Un’opera che richiede tempo al lettore per essere assaporata e assorbita ma che purtroppo per molti, proprio per questo motivo, è stata una faticosa maratona…..
Il prossimo incontro è stato fissato per martedì 14 maggio e leggeremo La vedova scalza di Salvatore Niffoi.
Chi fosse interessato può chiedere in biblioteca o telefonare allo 051940064 o scrivere a
[email protected]

 

 

foto Fruttero e Lucentini
Fruttero e Lucentini

Una primavera piena di iniziative per il  gruppo di lettura della biblioteca di Castel San Pietro :

Nell’ambito del festival dei gruppi di lettura della provincia di Bologna e della Romagna il 20 aprile ci incontreremo con il nascente gruppo di lettura della biblioteca “Borges” del quartiere Porto di Bologna e insieme all’autrice Licia Giaquinto parleremo e commenteremo il suo libro  “La Ianara”

Domenica 21 aprile, sempre a Bologna ancora un incontro “barcamp” sul tema dei gruppi di lettura
Rimandiamo al sito dell’evento organizzato dalle biblioteche comunali di Bologna http://festivallettori.wordpress.com/

foto Carlo Fruttero
Carlo Fruttero

foto Franco Lucentini
Franco Lucentini

2 Comments on Notizie dal gruppo di lettura GDL (80°)

  1. Il mistero FRUTTERO e LUCENTINI
    PIETRO CITATI 28 settembre 2006 56 sez. CULTURA
    Nel 1842, Eugène Sue scrisse I misteri di Parigi: molti si affrettarono ad imitarlo, con I misteri di Napoli, I misteri di Londra, I misteri di Pietroburgo, I misteri di Torino, I misteri di Milano. Le mie ambizioni sono più modeste. Vorrei accendere la rosso-violacea fiamma di un fiammifero, e scoprire qualche indizio, che ci lasci intravedere qualcosa del Mistero Fruttero-Lucentini: l’ ultimo enigma insoluto della letteratura italiana. Il più anziano tra i due scrittori, Franco Lucentini, nacque a Roma nel 1920, da una famiglia di origine marchigiana. Fin da giovane, aveva una voce da basso: o, per meglio dire, da cento bassi, cento Basili (quello della Calunnia è un venticello), che sembravano giungere dai più profondi antri e cavità della terra. Quando giungevano in bocca, le voci si incrociavano, si aggrovigliavano, si impastavano, litigavano, producendo un incomprensibile farfuglìo di parole ferite, mangiate e smozzicate. Col pericoloso soccorso di questo farfuglìo, Lucentini frequentò la facoltà di filosofia dell’ Università di Roma, laureandosi con una tesi sul Tempo. Tra i filosofi, prediligeva Parmenide, Eraclito, Duns Scoto, Spinoza, Leibniz, Kant, Schopenhauer, e detestava Hegel e Heidegger. Dopo pochi anni apprese quasi tutte le lingue: ebraico, greco, latino, russo, tedesco, spagnolo, francese, inglese, danese, norvegese, islandese. Quando gli domandai come facesse, mi rispose che era facilissimo. Bastava scoprire la struttura di ogni lingua: poi smontarla e rimontarla, come un meccanico smonta e rimonta una bicicletta. Sul suo tavolo Lucentini teneva due oggetti amatissimi: un cannocchiale da marina con cui contemplare le stelle, e un microscopio ottocentesco con cui osservare i lombrichi, i vermi, le amebe, le formiche, i coleotteri. Non gli piaceva che il lontanissimo e il vicinissimo, il grandissimo e il minimissimo: detestava ciò che sta in mezzo – voi, io, la realtà, gli esseri umani – , a cui avrebbe poi dedicato tanta parte della sua vita. Era un artigiano: uno degli ultimi di quella innumerevole stirpe di artigiani che costruirono le Piramidi, le Ziqurrat, il Partenone, la Domus Aurea, San Marco, Santa Sofia, la moschea di Cordoba, il palazzo ducale di Urbino, San Pietro. Quello era il suo mondo. E sono sicuro che, se fosse stato a Venezia o a Cordoba, avrebbe fatto di tutto: l’ architetto, l’ affrescatore, il miniatore, l’ intarsiatore, il mosaicista, il marmista, lo stuccatore, l’ orafo. La letteratura non gli piaceva, perché usa le mani soltanto per scrivere su un foglio di carta. Niente oro, niente argenti, niente diaspri e topazii: carta, penna, matita, inchiostro, una miseria. A vent’ anni, Lucentini detestava il fascismo: quelle mascelle protese, quegli occhi tonitruanti, quelle mani sui fianchi sul balcone di piazza Venezia; e le folle idiote che applaudivano idiozie. Non era legato a nessun movimento, o partito antifascista. Un giorno, acquistò in una cartoleria di Roma un congegno, Il piccolo tipografo (che esiste ancora), e dieci pacchetti di stelle filanti. Insieme agli altri congiurati, stampò sulle facce interne delle stelle filanti frasi contro il fascismo, Mussolini, l’ Impero, Ciano, Starace. Qualche giorno dopo, all’ Università si svolgeva una manifestazione politica a favore o contro qualcosa o qualcuno. Era una bellissima giornata di maggio. I congiurati si mescolarono cautamente agli studenti, lasciando cadere dalle tasche della giacca le stelle filanti con le scritte sovversive. Gli studenti inebriati non lessero le frasi: raccolsero le stelle filanti e le gettarono festosamente in aria. Per mezz’ ora, il radioso cielo di Roma e il cortile dell’ Università furono gremiti da quelle frasi, che deridevano il genio della nostra razza. Lucentini venne arrestato, deferito al Tribunale Speciale, e rinchiuso per sei mesi a Regina Coeli. Poi venne cacciato nell’ esercito. Non era mai esistito un soldato così infimo. Marciava fuori tempo, non capiva i comandi, dimenticava lo zaino, allacciava male gli scarponi, non salutava con focoso battere di tacchi, non si abbottonava bene la giubba, non colpiva mai il bersaglio alle esercitazioni. Era l’ infamia del reggimento. Grazie al suo talento di artigiano, Lucentini si salvò. Aveva appreso i tempi di smontaggio e rimontaggio del fucile in dotazione nell’ esercito italiano: il cosiddetto modello 91. Cominciò a studiare: prese appunti: osservò il movimento dei soldati col fucile, l’ ordine seguito nel montare e nel rimontare, individuò i gesti superflui, le ingiustificate contrazioni delle dita, i tempi vuoti. Dopo un mese di studii e di prove, Lucentini inventò un metodo di caricamento nuovo, che risparmiava un terzo del tempo fino allora necessario. Quando un ufficiale scoprì che il peggiore soldato dell’ esercito italiano aveva inventato un sistema rivoluzionario, che forse avrebbe permesso di vincere la guerra, presto lo stupore si trasformò in meraviglia, e la meraviglia in venerazione. Il Capo di Stato Maggiore stava per intervenire. Nella bellissima prefazione alle Notizie dagli Scavi di Lucentini, Fruttero sostiene che il suo doppio aveva la stoffa di un grande stratega. E’ probabile. Ma era il 3 settembre 1943. Cinque giorni dopo ci fu l’ armistizio, la confusione generale, la viltà, il caos, la fuga, e il possibile generale Lucentini ritornò un povero letterato. * * * Nato a Torino nel 1926, Carlo Fruttero ignorò per ventisette anni l’ esistenza del suo doppio romano. Come accade nel caso dei doppi, era esattamente il contrario di Lucentini. Se Lucentini farfugliava con voce da basso, Fruttero parlava con il tipico falsetto piemontese, lievemente snobistico: se Lucentini leggeva l’ Iliade e la Bibbia e i Nibelunghi e il Don Chisciotte e l’ Eugenio Onegin e le saghe islandesi nel testo originale, Fruttero li leggeva in traduzione: se Lucentini si era laureato con 110 e lode, Fruttero non fece nemmeno un esame universitario; se Lucentini viveva in una città senza industrie, Fruttero era impregnato in ogni poro dall’ odore della Fiat. Un giorno si stufò di Torino e se ne andò: salvo ritornarci dopo qualche anno, e restare sempre legato alla sua città, fedele come la patella allo scoglio. Il più bello dei suoi viaggi fu quello a Roma, nel 1950, per il Giubileo. Non credeva in Dio né in Gesù Cristo né nella Chiesa né nel papa né nelle indulgenze né nell’ apertura della Porta Santa; e questa apparente gratuità costituisce il tocco straordinario del suo viaggio. Andò a Roma a piedi e con la bisaccia, come un pellegrino del Medioevo. Ci mise ventisei giorni, quaranta chilometri al giorno, tappa dopo tappa. A sera, dormiva nelle parrocchie. Quando i piedi si piagavano e sanguinavano, li metteva, secondo il consiglio di una suora, in una bacinella piena di crusca. Mentre Fruttero scendeva a piedi verso Roma, per due giorni le automobili delle Mille Miglia salivano velocissimamente verso nord. Così il nostro tempo violava quel tempo di medioevale purezza, che un ateo (candido e innocente come Carlo Fruttero), aveva creato attorno a sé come un velo invisibile. Tra il 1947 e il 1953, Fruttero andò sovente a Parigi, abitando miserabili alberghetti a Montparnasse. Oggi, Parigi è una città bellissima, ma priva di qualsiasi fascino letterario: Dublino e Pietroburgo ne hanno molto di più. In quegli anni quasi ogni luogo era intriso di letteratura e di pittura. Era ancora la città dove Jean-Baptiste Chardin, «pittore del re», camminava robustamente, con la spadina al fianco, nelle stradine intorno a Saint-Germain – des Près: dove Balzac invitava a pranzo, nella sua casa incompiuta presso il Trocadéro, Théophile Gautier, gli offriva una bottiglia di Chateauneuf-du-Pape appartenuta a Talleyrand, parlava insaziabilmente di tutto, annunciandogli che avrebbe scritto le Mille e una notte dell’ Occidente: dove Alexandre Dumas percorreva i boulevards con un cappello di feltro alla Rubens, il gilet rutilante sbarrato da una catena d’ oro massiccio e l’ ordine di Isabella la Cattolica sopra il vasto petto vanitoso: dove Baudelaire scorgeva, presso il Carrousel, un cigno evaso dalla gabbia bagnare nervosamente le ali bianche nella polvere sotto «il cielo ironico e crudelmente blu»; e Proust, al numero 102 di boulevard Haussmann, scriveva per interminabili anni la Recherche, senza uscire dal suo carcere di sughero, mentre in cielo i proiettori si spostavano fiutando gli aerei tedeschi e avvolgendoli con le loro luci. L’ antico fascino di Parigi non bastava a Fruttero. A ventidue anni, era curiosissimo di tutte le cose, gli uomini e le apparenze della vita. Voleva vivere, conoscere, ficcare il naso, apprendere, correre, seguire tutte le piste. Fece l’ imbianchino: la mattina presto, portava il sidro nei bar della riva sinistra; o guidava le vetture in una giostra di autoscontro, tra le grida felici dei ragazzi. Finalmente, a Parigi, nel 1953, le due linee di questa storia si incontrarono, per caso, in un alberghetto di Montmartre. Fruttero disse qualcosa. Lucentini farfugliò e poi sorrise. Quel sorriso «conteneva» – scrisse Fruttero vent’ anni dopo – «in superficie, confusione, impaccio, una sorta di sbigottito deglutimento da recluta, che coprivano appena una tremula richiesta di perdono, un’ ammissione d’ inettitudine a vivere, di completa vulnerabilità, e un fondo di sconfinata, disastrosa tenerezza verso le minime cose del creato, di compassione per ogni concepibile debolezza, follia, bassezza e contraddizione». Quel sorriso soave turbò e quasi sconvolse Fruttero per sempre. * * * A pochi anni di distanza, Fruttero e Lucentini diventarono redattori della casa editrice Einaudi. Un mattino, verso le otto e trenta, percorsero i portici fumosi di via Cernaia, inoltrandosi sotto i grandi ippocastani frondosi e profumati di corso Umberto I. Lì accanto, a via Biancamano 1 bis, c’ era la casa editrice Einaudi. Quando Fruttero e Lucentini varcarono il portone, furono turbati. Un profumo intensissimo e onnipervasivo occupava tutti gli spazi vuoti, sfiorava il volto del portiere, riempiva gli uffici dei redattori, l’ Ufficio stampa, intrideva di sé le macchine da scrivere, i libri, le lettere in arrivo e in partenza, l’ Archivio, le bozze, le copertine. Non era, come pensarono Fruttero e Lucentini, il profumo di una grande cortigiana francese degli anni venti o trenta. Era il profumo personale di Giulio Einaudi. Cinque minuti dopo, il profumo venne interrotto, quasi spezzato e violato fisicamente, da una voce gracchiante, ironica, arrogante, nutrita di noncurante disprezzo. Era la voce di Giulio Einaudi. Malgrado il profumo e la voce, Fruttero e Lucentini lavorarono per anni a via Umberto Biancamano 1 bis. Lucentini, che aveva rapporti soltanto con la totalità dell’ universo, leggeva libri in tutte le lingue; e tradusse La biblioteca di Babele di Borges. Fruttero era più modesto: leggeva libri in lingua inglese, li traduceva, o rivedeva le traduzioni di altri. Infine tradusse il teatro di Samuel Beckett: verso il quale prova, ancor oggi, una venerazione quasi atterrita. Soccorsi dalla mite pipa odorosa di Sergio Solmi, gli amici curarono due tra i libri più belli di quegli anni: Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (1959), Il secondo libro della fantascienza. Se qualcuno volesse capire ciò che accade oggi, dovrebbe rileggere quei racconti, dotati di un potere profetico che la letteratura, forse, non ha mai posseduto con tanta intensità. Qualche sera erano invitati al ristorante o a casa da Giulio Einaudi – questo geniale vampiro. Come il capriccioso spirito di Dio scende dall’ alto sul capo dei suoi eletti, Einaudi cambiava rapidamente simpatie: ora preferiva il basedowiano Bollati, ora l’ intelligentissimo Renato Solmi, ora il coltissimo Franco Venturi, ora l’ angelico Daniele Ponchiroli, ora Italo Calvino, ora Luciano Foà, l’ amministratore, che rivedeva con precisione le traduzioni dei classici tedeschi. Se prediligeva qualcuno, Einaudi lo rivelava al ristorante: seduto nella seggiola accanto all’ amato, becchettava con la forchetta nel suo piatto: asportando un maccherone o un asparago o una patata fritta, o del caviale iraniano, o un brandello di carne, o un gambero, e talvolta frugando avidamente col cucchiaino perfino nella squisita patata al forno intrisa di burro. I presenti conoscevano benissimo il significato di questo gesto. Einaudi donava tutto sé stesso, offriva il suo corpo e la sua anima all’ amato, frugava nelle sue viscere, e insieme gli posava sulla lingua l’ ostia – l’ ostia dell’ elezione. Einaudi non becchettò mai nei piatti di Fruttero e Lucentini: né essi, che erano persone bene educate, lo avrebbero tollerato. Così, per evitare l’ ostia dell’ elezione, Fruttero e Lucentini lasciarono l’ Einaudi, per collaborare con una casa editrice più rozza, la Mondadori, dove avrebbero curato una rivista di fantascienza, Urania. Avevano molto tempo libero. Due volte la settimana prendevano il treno a Torino, e tra la nebbia, il fumo, la noia, le chiacchere dei compagni di viaggio – l’ avvocato, l’ avvocato, l’ avvocato, l’ avvocato, l’ avvocato…. – raggiungevano Milano. Nel 1965, un poco per passare il tempo, un poco per obbedire al loro genio tardivo, cominciarono a scrivere insieme un romanzo giallo, che sette anni dopo diventò La donna della domenica. Fruttero portava in dono la propria conoscenza del mondo e lo stile: Lucentini le sue grandi idee filosofiche, scientifiche e romanzesche che, forse, se non fosse stato vinto dalla pigrizia, avrebbero fatto di lui un emulo di Einstein, Werner Heisenberg e Stephen Hawking. Avevano temperamenti diversi. Non c’ era nulla in comune tra il falsetto piemontese di Fruttero, e il profondo basso infero di Lucentini. Ma condividevano altre cose. In primo luogo, sapevano di non essere grandi scrittori; e tantomeno grossi, maggiori e massimi: come oggi pensano tutti, persino il droghiere all’ angolo. Erano onesti artigiani. Fabbricavano seggiole, nelle quali i lettori si sedevano, senza precipitare rovinosamente al suolo: e scarpe, che tutti, uomini e donne, infilavano al piede, senza dover tagliare il pollice o il calcagno, come le sorelle maggiori di Cenerentola nella favola dei fratelli Grimm. Ambedue erano eccentrici. Guardavano alla vita con una ora scettica ora stoica disperazione: la quale non escludeva, anzi favoriva lo scoppio del riso. Infine, erano candidi. Non conoscevano la realtà, che pure rappresentavano con straordinaria precisione, perché uno scrittore non ha nessun bisogno di possedere un’ esperienza diretta delle cose. Se è un vero scrittore, le inventa. Poi tutti osservano meravigliati che queste invenzioni sono molto più precise di quella che, per abitudine, chiamiamo la vera realtà – la quale è una vecchia ciabattona ubriaca, blaterante e fantasticante. * * * Dalla Donna della Domenica sono trascorsi trentaquattro anni: ventidue da A che punto è la notte. Dopo il suicidio di Franco Lucentini, avvenuto cinque anni fa, Fruttero rimase solo. Come gli angeli giganteschi di Isaia e Ezechiele, con sei ali spiegate, in questi ultimi anni le Sventure sono precipitate sopra di lui: sventure di ogni specie, che non voglio rammentare. Credo che Fruttero abbia pensato: «Forse gli dèi si sono sbagliati, oppure le sventure hanno letto male il nome che gli dèi avevano scritto sulle foglie». Appena Fruttero pensava questo, un’ altra sventura piombava sopra di lui, ancora più terribile della prima. Come Giobbe, Fruttero avrebbe potuto scegliersi dei consiglieri teologici, e intentare un processo a Dio, alla Sua giustizia, alla Sua provvidenza, a ciò che un tempo veniva chiamato «l’ armonia del mondo». Ma la cosa non gli pareva elegante; e poi, di teologia, Fruttero non sapeva nulla. Oppure avrebbe potuto rivolgersi, come ormai fanno quasi tutti, all’ opinione pubblica, raccogliere firme in calce a un manifesto, provocare un’ interpellanza parlamentare, chiedere un’ udienza privata al papa, fare una dimostrazione silenziosa a Torino, davanti a Palazzo Madama: ma questo offendeva ancora di più le sue abitudini. Nella sua casa tra i pini della Maremma, vicino al mare, Fruttero ripeteva fra sé le parole dei greci: «Sebbene a malincuore, ineluttabilmente, / noi esseri umani / dobbiamo sopportare i doni degli dèi: / essi, davvero, sono molto più forti». Sopportava, sopportava, bevendo sino alla feccia l’ ultimo, amarissimo calice: senza lamentarsi mai, perché lamentarsi dei doni degli dèi (quali essi siano) non è decoroso. Non gli restava che scrivere un romanzo: con la leggera matita, la mano lieve, il tono basso, discreto, ironico; senza far intravedere nemmeno un’ ombra delle sventure. Il libro è qui: si chiama Donne informate sui fatti (Mondadori, pagg. 200, euro 17): intelligente e spiritoso, attrarrà moltissimi lettori. Chi racconta non è un narratore, e tantomeno Carlo Fruttero, che sta in un luogo lontanissimo dal libro. Parlano La bidella, La barista, La carabiniera, La figlia, La migliore amica, La giornalista, La volontaria, La vecchia contessa: tutte donne, ognuna delle quali intona il suo soliloquio-racconto. Non possiamo stupirci. Dopo Shaharazade, raccontano soltanto le donne: le donne che sono pratiche, efficienti, mandano avanti il mondo (senza di loro, precipiterebbe nella rovina), affascinano, parlano, parlano, parlano, dicendo meravigliose sciocchezze e qualche verità capitale. Dentro le narrazioni femminili troviamo, piccole piccole, le figure dei loro padri, mariti, amanti e figli. Secondo Beatrice (La migliore amica) gli uomini hanno un difetto gravissimo: sono inarticolati, cioè tutti di un pezzo, senza fessure né incrinature né complicazioni o rapporti interiori, né sentimenti esprimibili. La voce delle donne è sempre intessuta di cadenze, accenti e inflessioni piemontesi: la bidella e la barista e la volontaria parlano con l’ accento delle periferie e della provincia, mentre le borghesi hanno letto La donna della domenica e usano la lingua di Anna Carla. Ho vissuto molti anni a Torino: mi bastano due parole per riconoscere un torinese in mezzo a una folla; e, non so per quale ragione, ascoltare il dialetto piemontese desta in me una felicità assoluta. Vorrei consigliare alla casa editrice di accompagnare la prossima edizione del libro, o almeno le copie destinate al Piemonte, con una cassetta, dove qualcuno legga il romanzo col suo giusto accento piemontese. Il libro è divertentissimo: alcune scene, come il colloquio al cimitero, sotto il busto di Massimo d’ Azeglio, o il colloquio tra i banchi della Consolata, fanno colare lacrime di riso lungo le guance. Penso con gratitudine al vecchio, carissimo Giobbe, che ha dimenticato le proprie sventure per alleviare le nostre col più prezioso tra i doni. Non so dove stia, in questo momento, Franco Lucentini, che qualche anno fa si uccise per candore e inesperienza. Era troppo intelligente per credere che tutto finisca con un mucchio di ceneri. Forse è diventato un can barbone nero, con la medesima voce cavernosa e farfugliante da basso. O un albatro, un «vasto uccello del mare», un «indolente compagno di viaggio» con le ali da gigante che gli impediscono di camminare. O un coleottero multicolore, uno di quelli che un tempo studiava col suo microscopio ottocentesco. Certo, ora, Donne informate sui fatti è arrivato tra le sue mani: lui legge, si diverte; e pensa che, anche senza di lui, il suo doppio piemontese se l’ è cavata benissimo.

  2. 1. Voto: 8
    2. Scrittura: fluida, leggibile, peccato sia troppo lungo!
    3. Racconto: L’avevo già letto, ma non ricordavo bene chi fosse l’assassino, quindi l’ho riletto, mentre lo facevo mi affiorava chiaro il racconto, però solo alla fine ho capito chi fosse in realtà il colpevole. E’ proprio vero leggere lo stesso libro dopo 10 anni è tutta un’altra cosa o meglio, forse avendo nel frattempo letto tanti altri gialli, di sicuro molto più intriganti di questo, alla fine l’ho trovato lento ed a tratti senza ritmo. Ribadisco troppo lungo e ricco di dettagli a volte non sempre utili al racconto. Adesso ho capito il perché mi sono dimenticata il nome dell’assassino. La parte finale del libro, quindi il clou, dura solo 20 pagine rispetto alle 446 del tomo! E’ tirato via come finale.
    4. Cose che mi sono piaciute:
    • idea dei meridionali: “sono una razza a parte … quando vengono qui al nord … mi dicevano che è soprattutto un fatto di alimentazione, di proteine. Perché loro non sono abituati alla carne … Ma le loro donne sono abituate soprattutto al pesce (Signora Piovano)”. Idea molto ricorrente al nord in particolare negli anni ’70.
    • idea di Torino: Anna Carla “Torino non è affatto sobria e diffidente. Anzi. E’ la più pronta a captare il Male ad ogni angolo della terra e la sua funzione è di spargerlo in giro per il resto della penisola. Dice che se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese. Prima l’unità nazionale, poi la prima automobile, i primi consigli di fabbrica, il cinema, la prima stazione radio, la televisione, gli intellettuali di sinistra, i sociologi, il Libro Cuore, il cioccolatino di lusso, l’opposizione extraparlamentare. Secondo lui (Massimo), è una città straniera che odia il resto d’Italia e manda i suoi messaggeri maledetti a diffonderci ogni più abominevole trovata. … Lui (Massimo) dice che non solo i veri italiani, ma gli stessi torinese non se ne rendono mica conto. Loro credono di essere dei pionieri, lo fanno a fin di bene”.
    • Tempistica della risoluzione del giallo: da martedì a domenica. Dei miti! Allora è proprio vero quello che dicono, ossia che i casi di omicidio se non vengono risolti nei primi 3-4 giorni, dopo non vengono più risolti!
    • Personaggi:
    o Massimo Campi: non ho capito se amasse più se stesso del povero Lello. Un aristocratico ricco e insensibile o forse solo sensibile ad Anna Carla;
    o Anna Carla: la tipica ricca insoddisfatta che cerca conforto nella prima persona che le dà corda;
    o Il commissario Santamaria: mi è parso quasi secondario, non è stato il tipico detective faccio tutto io, anzi lo ha aiutato molto De Palma;
    o le sorelle Tabusso: anche loro ricche ed insoddisfatte, gran patos per le prostitute nel loro prato e poi per una “sciocchezza” una di loro uccide.

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